Il fallimento dell'altra Mimì (1)
Se si parla di anime sulla pallavolo femminile, il capolista non può non essere Attack No.1 (Quella magnifica dozzina, poi diventato Mimì e la nazionale di pallavolo), nato dal celebre manga di Urano Chikako del 1968.
All'epoca, "Attack No.1" riscosse parecchi fan italiani. Personalmente ricordo di averlo visto, credo, durante la primavera del 1982, quando si intitolava ancora Quella magnifica dozzina.
Una veloce premessa: nella prima metà degli anni '70, grazie al successo di "Attack No.1" (Quella magnifica dozzina), si sviluppò un'ondata sportiva nel mondo dei manga per ragazze che dette vita a un boom senza precedenti.
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| I primi due numeri del manga Attack No.1 |
Anche se, a dirla tutta, in realtà quel boom era già iniziato qualche anno prima grazie alle imprese delle leggendarie Streghe d’Oriente, ovvero la squadra femminile di pallavolo che trionfò alle Olimpiadi di Tokyo del 1964. L’altra miccia in versione fumettistica che contribuì a dare il via al boom della pallavolo femminile fu senz’altro Sign wa V!, inedito in Italia. Se Attack No.1 manteneva elementi tipici del genere shojo per ragazze, Sign wa V! si differenziò mettendo in risalto l’elemento spokon, soprattutto gli allenamenti intensivi e le super tecniche.
Il genere si estese poi al tennis, alla ginnastica, al nuoto e persino al bowling. Ma prima dell’avvento di capolavori come Ace wo nerae! (Jenny la tennista) il filone principale dei manga sportivi per ragazze attingeva decisamente alla pallavolo. Oltre a sfogliare qualche numero di Sign wa V!, di recente mi sono divertito a vedere un paio di episodi del drama Moero Attack (1979), basato sul manga di Ishinomori Shotaro.
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| Il drama e il manga di "Moero Attack" |
Inoltre, in passato mi era capitato di incrociare anche il manga Viva! Volleyball di Ide Chikae (1968), un spokon connotato da un forte spirito agonistico. Tra l’altro, seppur datato, la serie è ancora acquistabile oggi in formato tascabile.
Sull'onda di Attack, Sign e del Moero di Ishinomori proliferarono dunque numerose serie sulla pallavolo che riempirono le pagine ruvide dei settimanali e dei mensili di genere, alimentando un inusuale scenario, spesso caotico, nel mondo dei manga per ragazze.
Ed eccoci all'opera protagonista di questo post, cioè l'anime Ashita e Attack! (Mimì e le ragazze della pallavolo). A differenza degli illustri precedenti, questa serie non nasce in versione cartacea, ma esordisce direttamente nei teleschermi. Infatti, Ashita e Attack! venne trasmesso da aprile a settembre del lontano 1977 sulla lunghezza di 23 episodi. È un anime catalogabile come spokon nello stile e nella tecnica e, almeno all’inizio, mi pare abbastanza appassionante.
A differenza del più famoso predecessore Attack No.1, che rimase sugli schermi per oltre due anni, questa serie andò in onda solo per circa sei mesi. In Giappone trasmettevano, e di norma, lo fanno anche adesso, una puntata a settimana. Fosse andato in onda a scadenza quotidiana non avrebbe toccato il mese di programmazione.
A un certo punto, quello spicchio finale di anni ’70 venne conquistato da manga e anime su fate e maghette. Dopo la fine di Shin ace wo nerae! (Jenny la tennista, la seconda serie), dal 1979 in poi sembrò che non solo la pallavolo fumettistica, ma pure l’intero panorama spokon al femminile, fossero inevitabilmente destinati a scomparire.
È proprio in questo contesto difficile che, un paio di anni prima, nel 1977, comparve all’improvviso Ashita e Attack!, la serie che avrebbe dovuto essere considerata l’erede naturale di Attack No.1.
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| A destra, le campionesse del mondo 1977 |
La Coppa del Mondo del 1977
Ho letto che l’anime venne prodotto dal network televisivo Fuji per suscitare l’attesa dell’imminente Coppa del Mondo di Pallavolo femminile che si sarebbe tenuta nel novembre dello stesso anno, un torneo stuzzicante di cui quella televisione deteneva i diritti esclusivi di trasmissione. All’epoca, il network Fuji stava lottando coi cali degli ascolti e non c’è dubbio che sperasse in una ripresa giovandosi del traino del Mondiale e, perché no, anche dell’anime.
La prima cosa funzionò, l’altra meno. Anzi, molto meno.
Per la cronaca, quel mondiale femminile si tenne un paio di mesi dopo proprio in Giappone e la vittoria finale andò per la prima volta alle nipponiche. Si giocava ovviamente col vecchio sistema dei punteggi, quindi punto valido solo sulla propria battuta e set che terminava a 15 con almeno due punti di scarto.
Il Giappone perse per 3-2 contro la Cina nel girone preliminare a quattro, per poi rifarsi nel girone finale a Osaka, superando Cuba, vincendo il derby contro la Corea e aggiudicandosi la rivincita contro le cinesi per quella che rimarrà la sua prima e unica medaglia d’oro della competizione (nonostante il torneo venga organizzato stabilmente da queste parti).
Grande delusione della manifestazione furono le fortissime sovietiche, mentre le cinesi e le coreane si confermarono come gli avversari più ostici per le giapponesi. La vera sorpresa fu Cuba, che getterà le basi per diventare lo squadrone imbattibile che dominerà gli anni Novanta.
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