Konjo, questo sconosciuto
Un interessante articolo pubblicato sull’Asahi Shinbun nell’ottobre 2023 parla del konjo, cioè il temperamento, la forza di volontà e la tenacia che conquistarono il mondo dello sport giapponese all’epoca delle Olimpiadi di Tokyo nel 1964.
Mezzo secolo è passato da allora e, nel frattempo, la consapevolezza di giocatori e allenatori è profondamente cambiata. Cosa significa oggi la parola konjo per gli atleti che puntano alle Olimpiadi? È la domanda che si pone il giornale, che proprio su questo tema ha intervistato diversi sportivi, esplorando il loro rapporto con il konjo.
Prima però, un passo indietro. L’articolo ricorda che, per rimediare ai deludenti risultati delle Olimpiadi di Roma 1960 - concluse con appena quattro medaglie d’oro per il Giappone - la Nippon Taiiku Kyokai (Associazione Atleti Giapponesi, oggi Japan Sport Association) istituì un comitato composto anche da professori di psicologia dell’Università di Tokyo.
Gli studiosi e gli esperti di settore analizzarono le cause del fallimento e individuarono nel konjo la chiave per un riscatto. Lo definirono come una forte volontà di vincere, con consapevolezza dell’obiettivo, concentrazione sul traguardo e capacità di mantenere le conquiste raggiunte. Nacque così il Konjo yosei tekishito, un manuale per sviluppare il temperamento e ottenere migliori risultati sportivi.
Per sviluppare e allenare il konjo
- stabilisci un obiettivo chiaro e concreto.
- allenati con rigore, acquisisci fiducia imitando gli atleti di primo livello, poi cerca di raggiungerli e superarli.
- alterna l’allenamento con pratiche autonome come la meditazione spirituale.
- crea un luogo dove poterti rilassare.
(estratto da "Konjo yosei tekishito", manuale edito dalla Nippon Taiiku Kyokai in occasione della convention del 1964)
Secondo Okabe Yusuke, teorico di cultura sportiva all’Università Kanto Gakuin, intervistato nell’articolo, prima della guerra il termine konjo indicava la cattiva essenza dell’uomo, ovvero famelicità e avidità. All’inizio degli anni Sessanta, però, acquisì il senso positivo di forza d’animo utile per non cedere di fronte alle difficoltà.
Nel mondo sportivo divenne popolare la tendenza al duro allenamento, volto a forgiare il konjo, anche a scapito del supporto scientifico. Questo spirito divenne una vera e propria firma del Giappone, travalicò lo sport e influenzò vari ambiti della società nipponica. Tuttavia, portò con sé anche aspetti meno nobili, come taibatsu e shigoki (rispettivamente, punizione fisica e angherie verso i novellini), particolarmente diffusi nei club scolastici. Queste pratiche si radicarono a tal punto da diventare quasi la norma, trasformandosi spesso in problematiche sociali.
Piccola parentesi, fuori dall’articolo: qualche tempo fa la stampa sportiva americana criticò apertamente i metodi di allenamento riservati ai giovani lanciatori di baseball giapponesi nelle scuole. In Giappone, infatti, è prassi che i lanciatori liceali affrontino da soli partite di nove e più inning, anche tre o quattro gare a settimana durante i tornei, tanto che le loro braccia sono già logore a vent’anni. Allenatori giapponesi hanno bollato le critiche americane come culturalmente miopi. La verità, in Giappone, è che pochissimi lanciatori delle superiori arriveranno ai grandi campionati, quindi giocano dando tutto finché ne hanno la possibilità, prima di essere assorbiti dall’ingranaggio sociale.
La regola americana che vieta più di cento lanci a partita per preservare il braccio dei giovani è un’anatema in Giappone, dove in molti sport vige ancora la legge del konjo: impegno e perseveranza, elementi chiave nello sport dilettantistico nipponico. Tuttavia, questo concetto è oggi in discussione anche in patria.
Tra i punti critici c’è l’attenzione degli allenatori più sulla disciplina che sul talento: nei club sportivi scolastici, le tecniche dure servirebbero a rinforzare la mente, più che il fisico. Ma c’è un altro aspetto allarmante: la maggior parte degli allenatori non conosce a fondo la fisiologia dello sviluppo e i limiti di un corpo in crescita. Molti coach sono insegnanti prestati allo sport con una preparazione superficiale nella disciplina affidata.
Secondo la rinnovata Japan Sport Association, la metà degli allenatori di club sportivi scolastici non ha mai praticato lo sport che insegnano. Tuttavia, le scuole non si preoccupano troppo: lo sport serve principalmente a tenere occupati i ragazzi, a ben impressionare i genitori e fornire loro garanzie. Vincere è fondamentale per questi obiettivi, ma come non sempre si può garantire il successo, gli insegnanti-allenatori improvvisano strategie, sempre con buona volontà ma spesso con responsabilità relative, pur di rendere il loro impegno accettabile agli occhi di tutti.
Tornando all’articolo, grazie all’effetto konjo il Giappone conquistò ben 16 medaglie d’oro alle Olimpiadi del 1964. Oltre al wrestling femminile, fece scalpore la nazionale di pallavolo femminile allenata dal defunto coach Omatsu, soprannominato Oni no Omatsu (l’Orco Omatsu) per i suoi metodi spartani, assolutamente fedeli al konjo.
"Sin da bambina sono cresciuta guardando l’anime sportivo Attack No.1 (Quella magnifica dozzina / Mimì e la nazionale di pallavolo), e per me le pratiche basate sul konjo erano normali", racconta Masuda Akemi, maratoneta degli anni Ottanta. "In realtà, però, non mi è mai piaciuto allenarmi così duramente".
Pur avendo creduto nell’equazione allenamento spartano = successo garantito, oggi Masuda rivolge uno sguardo critico al passato. Appena prima delle Olimpiadi di Los Angeles 1984, la sua squadra fece tappa a Okinawa per acclimatarsi al caldo californiano, ma - come racconta - "accumulai così tanta stanchezza che questo alla fine mi si rivolse contro, impedendomi di dimostrare le mie reali capacità in gara".
Continua Masuda: "Dopo il ritiro agonistico, avvertii il cambiamento dei tempi, era il 1993. Da giornalista sportiva seguii la preparazione della maratoneta Asari Junko, che poi vinse ai Mondiali di atletica. Un ricercatore universitario monitorava quotidianamente il suo livello di acido lattico per impostare il programma, oltre a curarne l’aspetto mentale".
Asari sostiene di essersi affidata alla scienza dello sport, allenando il suo konjo in modo intelligente ed efficace. Ma attenzione: non significa che oggi ci si alleni meno. Anzi, sembra che gli atleti di oggi si sottopongano persino a carichi più pesanti dei loro predecessori. La differenza è nell’atmosfera degli allenamenti, ora più leggera e positiva, e quasi non si sente più parlare di konjo.
Tsuge Yoichiro, mental coach di atleti di alto livello, afferma: "Oggi serve una grande forza mentale. Evito però la parola konjo, troppo spesso legata a un’immagine negativa". Anche perché il vecchio konjo implicava obbedire ciecamente agli ordini e allenarsi in gruppo. Oggi, invece, gli atleti gestiscono la loro forza mentale (il personal konjo) in modo molto più individuale, mirato e consapevole.
Un vero cambio di paradigma arrivò con le Olimpiadi di Sydney 2000. Appena vinta la maratona femminile, Takahashi Naoko lasciò tutti a bocca aperta quando, sorridendo in diretta TV, dichiarò: "Sono stati 42 chilometri davvero divertenti". All’improvviso, molti telespettatori si chiesero: quindi le maratone non sono solo sofferenza e fatica? Era davvero possibile ottenere grandi risultati anche divertendosi! Per questo motivo, oggi molti atleti dichiarano di voler vivere pienamente e con gioia le Olimpiadi della prossima estate. Ma, essendo giapponesi, ciò non significa che rinunceranno davvero al loro personalissimo konjo.
La tabella relativa all’articolo:
Tappe fondamentali che hanno unito il concetto di konjo allo sport giapponese.
- La Nippon Taiiku Kyokai pubblica il testo Konjo yosei tekishito.
- 1964 (foto 1): le pallavoliste giapponesi vincono la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Tokyo. Il coach Omatsu disse: "Il Giappone ha vinto perché ha dimostrato una forza esaltata dal konjo".
- 1966: inizia la messa in onda dell’anime Kyojin no Hoshi (Tommy la stella dei Giants).
- 1969 (foto 2): debutta l’anime Attack No.1 (Quella magnifica dozzina / Mimì e la nazionale di pallavolo).
- 1984: va in onda lo sceneggiato School Wars, sul rugby liceale.
- 1985: dopo la delusione olimpica di Los Angeles, l’Associazione si impegna anche nella psicologia sportiva.
- 2000 (foto 3): Takahashi Naoko, dopo la trionfale maratona olimpica a Sydney, dichiara: "Sono stati 42 chilometri davvero divertenti".
- 2001: nasce l’Istituto Giapponese di Scienze Sportive.
- 2014 (foto 4): con lo slogan hissho (sorriso a ogni costo), il liceo Seiryo rimonta da 0-8 nell’ultima ripresa e vince la finale della prefettura di Ishikawa (negli anni Settanta, questo sarebbe stato lodato come un esaltante esempio di konjo).
In questo caso hissho (sorriso a ogni costo) fa il verso al più famoso hissho (vittoria a ogni costo), simbolo del konjo, che compare spesso sugli hachimaki, le fasce bianche che studenti, lavoratori e atleti annodano sulla fronte come simbolo di impegno e perseveranza prima di una sfida importante.



Ciao
RispondiEliminaUn'anno fa ho scoperto un'altra collegamento nipponico tra cultura sportiva e cultura pop.
Nel 1964 un ginnasta medagli d'oro giapponese disse di aver seguito il metodo Ultra C, che si poteva riassumere in "puntare a (superare) traguardi massimi".
Da questo trassero ispirazione alla Tsubaraya Productions per sviluppare il programma Ultra Q, un tokusatsu che miscelava atmosfere alla Doctor Who e kaiju.
E da questo Ultra Q alla Tsubaraya partirono per creare il franchise Ultraman.
Non capisco una cosa: ma allora in giapponese "hiss" significa sia sorriso sia vittoria?
Ciao
Giu
Interessante la questione della Q, non la conoscevo!
RispondiEliminaQuanto ai due hisshō:
il primo, il più conosciuto, 必勝 si legge appunto hisshō e significa "vittoria sicura": è la scritta che si trova sulle bandane bianche col sole rosso in mezzo.
Mentre 必笑 si legge anch'esso hisshō e significa letteralmente "certezza di ridere". Ma non è un'espressione comune, è più una combinazione rara e creativa con un significato più letterale legato al ridere. Infatti, venne usata come slogan per sdrammatizzare (scimmiottare?) il significato profondo della prima scritta che si rifà al konjo.